(Uscito, in versione diversa e con altro titolo, su “L’Adige” e “Alto Adige” del 17 marzo 2020 – Pubblicato su questo sito il 12 marzo 2020)
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Italia inquieta, siamo al coprifuoco. È l’ora dei doveri morali e della responsabilità collettiva. Per proteggersi l’un l’altro, per proteggere gli altri oltre se stessi. Contro il diffondersi epidemico del virus, invisibile e minaccioso. Il buon senso cerca di accordarsi con la scienza sobria, onesta e forte della sua modestia, che nel riconosce i suoi limiti si rafforza. Il buon senso, seppur tardivamente, arriva pure alla politica. Guai tradire il buon senso, come troppi hanno fatto in ogni dove, esprimendo una cultura presuntuosa che schernisce la semplice ma legittima paura di qualcosa che non si conosce: la paura di un virus sfuggente, che non si lascia ingabbiare. Guai a tradire il buon senso quando si tratta di fare scelte difficilissime, costose su molti piani, non solo economicamente, scelte dilemmatiche e in condizioni di incertezza. Ora si tratta di raccogliere le forze e la lucidità per frenare il contagio da Covid-19 e di imboccare la strada per uscirne. È la sfida a cui il premier Conte e il governo nazionale chiamano il Paese, con il decreto del 9 marzo «Io resto a casa». Vero, il governo e la politica tutta sono in palesa difficoltà: si muovono a tentoni, con misure confuse e anche contraddittorie. Ma l’appello “Io resto a casa” va raccolto. È lo stesso che cantanti, mondo dello spettacolo e dello sport fanno rimbalzare, anche loro in ritardo, via mass media e social, rivolti a destra e a sinistra, cercando di toccare le corde dei più giovani e ai recalcitranti, spesso sordi ai richiami, perché “Cazzo! Ho vent’anni, non posso rinunciare a divertirmi!”.
Il circo e il pane: gli svaghi e gli spettacoli, l’economia e il lavoro. Sono fondamentali in ogni società, anche nelle nostre democrazie. Sono risorse indispensabili anche per la politica che deve regolare la vita e la convivenza collettiva. “Panem et circenses”, dicevano gli antichi. È così anche oggi, e non è il caso di essere schizzinosi. Ma cerchiamo di usare al meglio le nostre forze: volontà e intelligenza, emozioni e sentimenti, tutti, remino nella stessa direzione: uscire dalla crisi. La compostezza e tutta la fiducia ora vanno spese e investite in questa missione collettiva. Ma per trovare la via è necessario fare un passo indietro. Riflettere su come ci siamo arrivati a questa emergenza aiuta a essere consapevoli e a fare tesoro degli errori, senza fare finta finta di niente. Ora non è il momento delle autocritiche o delle scuse da parte di non aveva ben capito. Se quella del coronavirus rischia di diventare la crisi più seria dalla metà del ‘900, dalla seconda guerra mondiale, come ci siamo arrivati? Chiudendo i recinti man mano che i buoi uscivano. Sottovalutando i primi segnali del contagio; scambiando paura, allarme e prudenza, che sono meccanismi di difesa, con allarmismo, razzismo, discriminazione (come non ricordare la stigmatizzazione di coloro che preferivano non andare a mangiare ai ristoranti cinesi?).; non usando tutti, da subito, la massima prudenza e magari deridendo con supponenza chi la suggeriva; le istituzioni politiche e scientifiche si sono mosse in modo erratico, a colpi di stop and go, non hanno fatto alcun appello formale, istituzionale, al “principio di precauzione”, presente anche nelle carte dell’Ue, secondo il quale, in condizioni di incertezza scientifica, di fronte a rischi seri è necessario usare una “precauzione rafforzata” e non la “precauzione minima necessaria” del momento (Il Cornonavirus avanza. Il Principio di Precauzione come scudo); 5) mancanza di coordinamento tra governo, regioni e comuni, tra i governi nazionali a livello internazionale ed europeo, con l’Ue chiusa in un silenzio assordante e l’Organizzazione Mondiale della Salute a predicare nel deserto ma anche un reticente (ha dichiarato lo “stato di pandemia” solo l’11 marzo); con molta confusione nell’informazione e sui media, scarsa capacità di comunicazione della scienza, esperti pubblicamente l’un contro l’altro armati (L’altra faccia del coronavirus: curare l’infodemia, tra scienza, politica e media); con mancanza di coraggio da parte delle istituzioni politiche, incapaci di assumersi la responsabilità delle scelte pubbliche, con la politica che si nasconde dietro lo scudo protettivo della scienza, mentre questa palesa di non disporre di conoscenze certe o univoche.
La crisi ora è anche economica. Certo. Ma a mio modo di vedere è anzitutto sociale e psicologica, direi culturale, oltre che ovviamente sanitaria. Ha investito la vita quotidiana e la dimensione relazionale della società, ha sprigionato comportamenti (individuali e collettivi) moltiplicatori del contagio, con tutte le conseguenze del caso per la salute delle persone, per la tenuta del sistema sanitario, per le attività economiche e non solo. A livello politico ha anche messo sotto tensione l’ordine democratico, istituzionale e costituzionale del Paese, senza che ce ne siamo quasi accorti, tanto che non è peregrino evocare una situazione di “stato di emergenza”.
Per uscire dalla crisi sono necessari ingenti “investimenti”. Sul piano economico, ovviamente (spesa pubblica, in deficit di bilancio; sostegno dell’UE e profonda revisione dei parametri di Maastricht; mobilitazione del credito privato; sostegno alle imprese e alle famiglie; varo di un “contributo di solidarietà emergenziale”, secondo criteri di equità patrimoniale e reddituale; evitare che all’iniquità della distribuzione dei benefici si sommi quella della distribuzione dei costi della crisi). Ma occorrono anche investimenti sul piano etico, nel senso civico, in comportamenti di responsabilità verso gli altri: verso la comunità. È necessario recuperare la cultura del dovere e della responsabilità, davvero al lumicino nella fase iniziale del contagio, e in parte ancora oggi, come da peggiore tradizione (Si veda G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, 1994). Senso di responsabilità e doveri civici devono diventare la priorità di tutti, di ciascuno di noi (giovani per primi, adulti, anziani), nella vita di tutti i giorni, in ogni sfera della società, lavorativa o ricreativa. Perché ciascuno di noi non corre solo rischi personali, per la propria salute, ma, con i suoi comportamenti, può ridurre o aumentare i rischi che corrono gli altri, specie anziani e ammalati. L’estensione del contagio porterà a scegliere chi fare vivere e chi fare morire: è l’avvertimento dei medici (in un certo senso ufficializzato dall’associazione nazionale degli anestesisti, con un protocollo reperibile su internet).
L’individualismo e l’utilitarismo egoista che permeano la cultura dominante nella nostra epoca (e che hanno poco a che vedere con quelli teorizzati da Adam Smith o da Tocqueville) non aiutano i cittadini a sviluppare un senso del dovere verso la comunità (locale, nazionale, europea): alla comunità chiediamo sempre qualcosa, ma spesso siamo restii a dare. Non ci sentiamo mai in debito verso la comunità. Siamo figli dell’”età dei diritti” e tendiamo a dimenticare che abbiamo anche dei doveri verso la comunità, anche verso chi non conosciamo; dimentichiamo che i diritti sono l’altra faccia dei doveri. Oggi, difronte all’emergenza coronavirus, dobbiamo cambiare stile di vita: questo ci chiede il governo; questo ci chiedono persino le star, più o meno cool o smart, del momento. Ma attenzione, dobbiamo farlo seriamente: uno stile di vita si cambia davvero se esistono convinzione e coscienza per farlo, richiede un cambiamento della mentalità collettiva dominante, del senso morale diffuso. È questa la vera lezione che dovremmo apprendere dall’emergenza provocata dal coronavirus. Come disse John Kennedy (1961): «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese».
In Italia, come in altri Paesi, ma purtroppo non dappertutto, la salute pubblica e la sicurezza sanitaria sono un “bene pubblico”, un bene comune, un bene di cui tutti possono usufruire, a cui tutti hanno diritto. Ma anche questi beni necessitano di essere prodotti, hanno dei costi di produzione, costi economici ma pure morali: per disporne bisogna che in una società esista un numero elevato di individui disposti a “pagare” questi “costi di cittadinanza”: dal biglietto dell’autobus, affinché ci siano i trasporti pubblici, alle tasse in generale, affinché ci siano i servizi che reclamiamo. Come si comporta il singolo individuo? Come insegnano le scienze sociali, da un lato c’è il “furbo”, il c. d. free rider, lo scroccone, chi che approfitta della disponibilità dei beni comuni senza pagare; dall’atro, il c. d. “pollo, chi paga anche per coloro che non vogliono “pagare” al fine di contribuire alla fornitura dei beni comuni a vantaggio di tutti. Oggi il contenimento del contagio è tutt’uno con il bene pubblico “salute”: è questo il bene comune che dobbiamo alimentare. Tutto ciò è possibile nella libertà se nella società ci sono molti “polli” disposti a pagare, a rinunciare a qualcosa. Può suscitare amarezza, ma una società sta in piedi grazie ai “polli” e alla loro razionalità cooperativa. Ai “polli” deve andare il plauso di tutti, e dei free riders per primi. È con più “polli” e meno free riders che possiamo farcela ad uscire dalla crisi. E ritrovare un senso etico degno di persone responsabili. Ma, come dice Sen, il “pollo” non è sciocco. Stupido è il free rider. Che si sappia.
Quando si ha modo di leggere pensieri scoprendo in essi una profonda sintonia con i propri, a dispetto della sensazione di incomprensione, nonché di isolamento culturale e morale (oltre a quello fisico del presente momento), non si può non provare un potente stimolo a fare di più e meglio nel proprio piccolo, anche continuando a non esserne ripagati. Credo che quest’articolo abbia la capacità di provocare tale effetto in diversi di coloro che lo leggeranno, assolvendo a una funzione di “anagogia civica” di cui molto si ha bisogno. Solo questo: grazie, davvero.
In questi giorni si possono notare azioni che hanno caratteristiche tipiche dei rituali. Frequenti sono le manifestazioni di appartenenza nazionale: inno diffuso all’aperto attraverso speaker, cittadini che lo intonano dalle finestre delle proprie case. Interessante è l’aumento esponenziale di followers (da 200 a 236mila in pochi giorni), di un profilo Instagram che, se pure in maniera divertente, sostiene la figura del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
In questa vicenda che può essere definita come giuntura critica, emerge come il bene pubblico della salute venga tutelato dallo Stato e non da altre istituzioni sovranazionali. Dal punto di vista identitario sono gli stessi cittadini che riconoscono nelle strutture nazionali il loro punto di riferimento seguendo lealmente le direttive. Per quanto riguarda le più pratiche questioni di policy è palese la mancanza di coordinamento tra le misure dei i vari paesi appartenenti all’Unione europea.
Il sistema politico autoritativo rimane ancora lo Stato nazione.