(Uscito, in versione più breve e con altro titolo, su “Alto Adige” e “Trentino” del 6 giugno 2015 – Pubblicato su questo sito il 5 dicembre 2019)
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Nei bagni dell’Università di Trento sono state trovate alcune scritte rivolte ad uno studente in cui si dice: “te la faremo pagare!”, per te una “chiave inglese tra i capelli” (se ne stanno occupando le autorità competenti). Nella cronaca di qualche mese fa leggiamo del noto cantautore Gino Paoli, coinvolto in un’indagine fiscale, che dichiara alla stampa che nessuno scherzi sulla sua vicenda, perché potrebbe anche “picchiare” e “mandare all’ospedale” (non sappiamo se ha subito denuncia per queste dichiarazioni). Lo scrittore Erri de Luca ha pubblicamente dichiarato tempo fa che i lavori sulla linea TAV sono da “sabotare” (e per questo è sotto processo a Torino). Pochi mesi fa sono venuto a conoscenza del fatto che su facebook era comparsa una pagina che “prende in giro” il cantante Andrea Bocelli in quanto non-vedente, pagina che nel giro di poche ore pare abbia visto il gradimento di oltre 4.500 fan (la pagina è stata rimossa dal social network su richiesta di un’associazione che si occupa di cataratta congenita).
Come docente dell’Università di Trento seguirò la vicenda delle scritte nei bagni, per il resto continuerò ad ascoltare “La gatta” e “Il cielo in una stanza” del cantautore genovese e a leggere i libri “neo-evangelici” di de Luca, ad esprimere la mia solidarietà ai portatori di handicap – come capita nella vita quotidiana. Gli episodi che ho richiamato sono chiaramente molto diversi tra di loro, e qui non entro nel loro merito. Essi hanno però un importante punto in comune: la questione della libertà di espressione e delle possibili reazioni che in certi casi può suscitare. Insomma, la questione della tolleranza di cose dette o fatte da chi la pensa o si comporta in modo diverso da come altri pensa o fa. Nella nostra società democratiche, si dice, siamo liberi di pensare, esprimere o scrivere quello che riteniamo: la libertà di parole, di espressione e persino di stampa è uno dei diritti civili sacri per la cittadinanza liberaldemocratica. Ci sono dei limiti di buon gusto, va da sé. Così come, in taluni casi, dei limiti di legge nell’esercizio puntuale di questa libertà, ci sono dei doveri o degli obblighi di cittadinanza. Già in tutto questo emergono dei problemi. Ma i problemi non sono tutti o solo qui. Prendiamo la questione dei limiti della libertà di espressione. Nel gennaio di quest’anno (2015), quando il terrorismo islamista colpì a morte la redazione di Charlie Hebdo (il giornale satirico ormai celebre in tutto il mondo), la reazione di condanna da parte dell’opinione pubblica internazionale fu immediata e corale. Giova ricordare che nell’occasione la condanna non puntava solo contro la ferocia assassina dei terroristi nei confronti degli inerti membri di una redazione giornalistica. La ferma reazione si indirizzava anche contro l’aggressione alla libertà di opinione e di parola in generale. Lo slogan della mobilitazione collettiva, simbolicamente incarnato nella enorme manifestazione parigina dell’11 gennaio, è stato: “Tolleranza senza riserve!”.
Senza dubbio, la tolleranza è un valore irrinunciabile della civiltà democratica, è una delle facce della libertà. E’ la virtù civica che nutre la convivenza pacifica tra “diversi” e persino tra “estranei” – come direbbe il filosofo Habermas. Consente a chi la pensa diversamente da noi, a chi ha abitudini e costumi, idee e valori differenti, di essere incluso nella comune cittadinanza democratica. Ma senza limiti? Possiamo, ad esempio, accettare che qualcuno imbratti i bagni di un’università con minacce, persino ad hominem? O che minacci pubblicamente di “spaccare la faccia” se altri scherza su un suo problema? O che istighi a “sabotare” dei lavori pubblici per un’opera voluta dallo Stato? O che derida sulla piazza virtuale un portatore di handicap? Dobbiamo difendere la libertà di espressione di costoro in ragione della tolleranza? Lo faremmo nel caso in cui tali espressioni di libertà fossero puntate contro di noi? O forse diremmo che ci sono dei limiti nella libertà e nella tolleranza? Come ciascuno di noi sa per esperienza personale, ci sono dei limiti. Sappiamo anche che tali limiti sono per lo più regolati da ordinamenti giuridici: quando è il caso, si va per via giudiziaria. E fin qui ci siamo. Ma resta un altro problema: il problema culturale della libertà e della sua (auto)limitazione, della tolleranza e dei suoi confini. E’ un problema, questo, che non può essere trattato solo ed esclusivamente sul piano della legalità e dei codici. Del resto, a guardate la cosa da un’altra angolatura, è la storia stessa a mostrarci l’insufficienza del diritto costituito: spesso la conquista della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti ha percorso strade extra-legali e talora illegali rispetto ai contesti. Altrimenti, ad esempio, a diritto vigente un tempo, la schiavitù del passato (anche recente) o la discriminazione politica delle donne sarebbero ancora in vita (più di quanto non lo siano ancora oggi). Anche la legalità vede modificarsi il suo campo e i suoi contenuti nel corso del tempo, spinta e ridefinita dai valori maturati nelle culture politiche delle varie epoche, dei differenti contesti, dei diversi gruppi. Ad esempio, appena riconfermato premier britannico, lo scorso maggio Cameron ha affermato che le nostre società sono troppo «passivamente tolleranti». Come dire: tolleranza va bene, ma non il subire passivamente.
Tolleranza sì o no, quale e quanta, non è una questione che possiamo decidere solamente in punta di diritto dato o con l’intervento delle istituzioni preposte. La questione è infatti anche, e in fondo soprattutto, culturale: una questione di cultura “politica”, nella misura in cui riguarda la convivenza in una res publica. Alle spalle del diritto costituito troviamo nodi morali o orientamenti etici. Per questo, la questione della tolleranza è più spinosa di quanto appaia: assai delicata, spesso dilemmatica. Come trattarla, allora? Come reagire, culturalmente, per così dire “idealmente”? Ossia, come ci pensiamo di fronte a situazioni che chiamano in causa i dilemmi della tolleranza, o le offese subite? Papa Francesco, con poche parole semplici come è nel suo stile, aveva espresso una visione in cui collocare il problema della tolleranza e della libertà di espressione. Mi riferisco alla nota battuta sul “pugno”.
Sollecitato dai giornalisti sul tema del rispetto dovuto alle fedi religiose e del rispetto della libertà di espressione, il Papa osserva: «Ognuno non solo ha la libertà, il diritto, ma anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune… ma senza offendere». E spiega: è vero che non dobbiamo reagire con la violenza ad un’offesa, ma se qualcuno, anche un amico, «mi dice una parolaccia contro la mia mamma, gli arriva un pugno! E’ normale!… C’è un limite». Sull’onda delle polemiche suscitate da questo “pugno”, qualche giorno dopo Francesco ritorna sul “limite alla tolleranza”, sottolinea che, certo, il Vangelo invita a “porgere l’altra guancia”, ma aggiunge anche che «siamo umani»: «Io non posso insultare, provocare continuamente una persona, perché rischio di farla arrabbiare e di ricevere una reazione» (per quanto “non giusta”). In breve, conclude, la libertà di espressione deve essere “educata”, deve accompagnarsi alla “prudenza”. Come dire: la libertà di opinione è un valore fuori discussione ma, ciò detto, non dimentichiamo che essa è calata nel mondo umano.
Nell’immediato, il “pugno” di Francesco ha agitato l’opinione pubblica, è stato aspramente dibattuto. Ma presto è caduto nel dimenticatoio: senza andare fino in fondo sulle implicazioni delle parole del Papa e senza discuterne le implicazioni. Insomma, il “pugno di Francesco” è stato rimosso dal dibattito e dal mondo dell’informazione. In questa rimozione ho colto un certo imbarazzo da parte della nostra cultura politica, specie quando qualcuno evoca, anche solo per modo di dire, qualcosa che rammenta la violenza. In Papa si era infilato in una via scivolosa e scottante, è indubbio. Non a caso egli stesso non è più tornato sulla questione nei termini in cui l’aveva posta, e nessuno del suo entourage lo ha fatto al suo posto, come talora capita in casi del genere. Ma possiamo lo stesso discuterne? O pensiamo che il rapporto tra tolleranza, limiti della libertà di espressione e violenza non faccia parte della nostra vita, e dei dilemmi che apre?
Alla luce degli episodi di cronaca citati sopra, e di molti altri che si potrebbero facilmente ricordare, quelle della libertà e della tolleranza sono questioni cruciali per la nostra convivenza civile. A prescindere da come ciascuno di noi la pensi nel merito, è segno di maturità culturale che su tali questioni ci si confronti, per cercare di capire insieme, di comprendere dove siamo e dove vogliamo andare, per evitare di farci cogliere di sorpresa da un primo ministro che, all’improvviso, ci butta addosso: nelle società occidentali c’è troppa tolleranza e passività nei confronti delle diversità.
Con la tolleranza, questo è il punto, ci muoviamo su un terreno molto accidentato. La tolleranza è tante cose. C’è una tolleranza che è indifferenza (passiva, benevola, paternalista). E c’è una tolleranza che è accettazione rassegnata delle differenze per semplice quieto vivere o amor di pace. C’è una tolleranza stoica e rigorosa, che riconosce per principio il fatto che anche chi è diverso da noi ha dei diritti, anche se non ci piace come li usa. C’è una tolleranza che è apertura verso gli altri, rispetto e curiosità nei confronti delle differenze. E c’è anche una tolleranza che è identificazione con l’”altro”, adesione piena e convinta a idee o pratiche diverse dalle nostre. Tuttavia, non tutti questi tipi di tolleranza esprimono adeguatamente l’idea di tolleranza a cui si ispirano i principi regolatori delle nostre società democratiche quando la reclamano come qualità civica, sale della libertà, virtù che alimenta un genuino pluralismo. Ma su questo lascio il lettore al libero esercizio dell’immaginazione.
La tolleranza non è una virtù gratuita. Implica un “costo”, che paghiamo per godere dei nostri diritti civili (la libertà di espressione, di culto o di fede politica). La tolleranza, sotto questa luce, può essere esigente. Fino a implicare, in un certo senso, una parziale e volontaria rinuncia alla libertà di affermare o far valere la propria visione delle cose. Se essa non costa nulla, forse dovremmo chiederci se non sia decaduta a indifferenza o a relativismo assoluto. E allora, per riprendere la lezione volteriana: “non condivido la tua idea, ma darei la mia vita perché tu la possa esprimere”; ma dopo che l’hai espressa, se sono ancora in grado, potrei anche darti un pugno, se essa mi ferisce. E spero tu faccia altrettanto per me, e con me.