(Uscito su “l’Adige”, il 27 dicembre 2014, con altro titolo e in versione leggermente diversa – Pubblicato su questo sito il 17 giugno 2019)
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Molti analisti di politica osservano che il cittadino medio è un consumatore ‘irrazionale’ (di politica) e che la sua insoddisfazione sulle élites politiche non sempre deriva da un giudizio ponderato sulla qualità delle prestazioni di chi governa o sulla loro effettiva cattiva performance. Aggiungono, questi analisti, che difficilmente l’elettore va a votare valutando analiticamente i vari programmi o le politiche delle forze di governo o le controproposte delle opposizioni. Sgombriamo subito il campo da equivoci o semplificazioni: 1) non sempre è così; 2) esistono vari tipi di elettori; 3) differenti sono le motivazioni e gli interessi che muovono i comportamenti elettorali (taluni virtuosi ma taluni persino inconfessabili, ad esempio legati a quella “terra di mezzo” portata alla ribalta dal sistema di corruzione emerso nella regione Lazio non molto tempo fa).
Ciò detto, la visione che getta giudizi molto critici sulla bontà op razionalità dell’elettore medio solleva un problema di cultura politica che riguarda l’immagine diffusa che abbiamo della nostra società, a partire dall’immagine elaborata dalle élites culturali mainstream. Come sappiamo, nelle scienze sociali da tempo domina il modello di analisi e interpretativo “razionale”, utilitarista e “mercatista”. Ma questo modello dell’attore “razionale”, inteso come massimizzatore delle utilità nel senso della teoria economica, spesso assunto implicitamente dalle scienze sociali e veicolato nella cultura comune e di massa, offre davvero spiegazioni soddisfacenti dei fenomeni sociali, politici ed economici e dello stesso funzionamento delle democrazie contemporanei? Spiega, ad esempio, il crescente astensionismo elettorale, ormai clamoroso in Italia (e che non è certo un “problema secondario”)? Non affrontare seriamente interrogativi del genere, relativi agli assunti da cui prende le mosse la nostra conoscenza (scientifica e non) produce effetti a cascata, e negative, che distorcono la nostra comprensione della della società democratica. Questa è una sfida per la nostra cultura scientifica.
Viviamo una fase di acuto “malessere democratico”, di malinconia democratica: Le sue manifestazioni sono apatia politica, tendenza calante della partecipazione al voto, corruzione dell’ethos pubblico e cinismo, diffusa ostilità verso i centri decisionali buro-tecnocratici (a partire da quelli con sede a Bruxelles), adesione al populismo o ad una politica apparentemente “anti-politica”. Questi fenomeni, però, non sono la causa del malessere, ma solo i sintomi: sono la febbre. I cittadini comuni si sentono sempre più disorientati, delusi, frustrati dalla politica democratica e dai suoi soggetti (parlamento, governo, partiti, amministrazione pubblica, organizzazioni degli interessi, tecno-strutture). Tuttavia restano perlopiù ancorati ai valori di fondo della democrazia. Per molti aspetti sembrano reclamare maggiore democrazia, come suggerisce una lettura attenta del neo-populismo democratico o degli esperimenti di democrazia deliberativa e partecipativa (ciò spiega, ad esempio, una buona parte del successo del Movimento 5 Stelle). A mostrare le corde non è quindi il sistema democratico in quanto tale, ma l’attuale democrazia, e la democrazia rappresentativa in particolare (con le sue classiche istituzioni), le sue élites storiche e il “senso” che la democrazia ha negli ultimi decenni assunto nella sfera pubblica. E qui incontriamo il problema essenziale e più delicato.
La soddisfazione verso la democrazia non è solo una questione di costi/benefici associati al rendimento delle istituzioni, alle aspettative dei cittadini, una questione di calcoli razionali (per quanto in tempi di dura crisi economica è facile che questi aspetti risaltino). Il cittadino comune non è “riducibile” all’attore razionale assunto da una certa teoria economica. Lo aveva già evidenziato più di mezzo secolo fa Schumpeter – il padre nobile della “teoria economica della democrazia”. Aspettative e giudizi dei cittadini sono definiti anche e soprattutto sulla base di “sistemi di credenza”. Seguono logiche di tipo extra-razionale, extra-utilitaristico (ma non banalmente “irrazionali”). Se vogliamo accostare il malessere democratico al deficit di prestazione delle istituzioni dobbiamo farlo coerentemente e fino in fondo: la valutazione delle prestazioni dipende, in ultimo, dal complessivo “stato d’animo” politico-identitario dei cittadini; in particolare, la valutazione varia a seconda che tale stato d’animo esprima o no un auto-riconoscimento dei cittadini nella propria comunità democratica, a seconda o no che viva un legame tra il cittadino comune e le élies che lo rappresentano e lo guidano, a seconda o no che le élites si sentano obbligate alla loro comunità politica, se ne prendano cura e manifestino una credibile “simpatia” (nel senso di Adam Smith) verso i governati. Questo significa che istituzioni democratiche, élites e ceto politico guadagnano legittimità (e non solo quel consenso volatile cui spesso guardano) se si rivelano capaci di rispondere a quelle che sono domande collettive di “senso” democratico, ossia se riescono a coltivare l’idea e la pratica della democrazia come res publica, come quel “bene comune” chiamato cittadinanza o, con linguaggio ormai desueto, sovranità popolare.
Certo, sappiamo che la democrazia contemporanea è un “metodo” per prendere decisioni collettive autoritative e valide erga omnes. Ma essa, da tempo, è soprattutto diventata anche il “regno del disincanto” politico, come ci insegna la retorica della “fine dell’ideologia”. Disincantata è la democrazia procedurale, tecnocratica, economico-utilitarsitica, con cittadini-consumatori e politici-imprenditori “razionali”. La sua legittimità si basa sulle regole, competenze, utilità. Niente di male. Il fatto è, però, che una democrazia non vive solo di disincanto né trova fondamento solo nella razionalità dei suoi attori. Essa ha bisogno di un suo peculiare “incantesimo”. Il realista Schumpeter scriveva che il “partigiano” della democrazia è tale perché è convinto di trovare nella democrazia una garanzia di difesa di ideali e interessi che stanno al sopra del “metodo”: è in questa convinzione che si esprime quel “credo” democratico che nutre lo stesso “metodo democratico”.
Dietro ai fenomeni di insoddisfazione e di decadimento democratici che osserviamo oggi è nascosto un bisogno di “re-incanto democratico”. Un bisogno di “credere” alle cose e ai valori promessi dalla democrazia. Sta a tutti noi operare per il mantenimento di queste promesse, anche di quelle finora non mantenute di cui parlava Bobbio. Pena la corruzione della democrazia e della vita pubblica. Se perde la capacità di destare meraviglia, la democrazia corre il rischio di diventare un metodo, una tecnica o un bene come altri. Ma così si perde anche buona parte del suo fascino e della sua legittimità. Forse è il caso di ripensare la nostra cultura politica.