(Uscito su “l’Adige”, 11 giugno 2019; “Alto Adige”, 11.6.2019 – Pubblicato su questo sito, in versione più ampia, il 12 giugno 2019)
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Forse ci siamo un po’ rassegnati ai pensieri corti delle campagne elettorali permanenti. Cogliamo al volo la pausa di questo momento, l’attimo fuggente, e tentiamo qualche pensiero lungo. Palazzo Chigi: conferenza stampa del premier Giuseppe Conte che sa di “discorso alla nazione”. Il 3 giugno, in diretta sui televisori degli Italiani, il Presidente del Consiglio ha pronunciato un discorso con un sobrio aut-aut a MoVimento 5 Stelle e Lega, che reggono il governo: “O ci si rimette a lavorare tutti insieme, con fiducia e lealtà rinnovate, o mi farò da parte”. Un gesto pubblico singolare, quello di Conte, che denota la delicatezza politica del momento, ma che fotografa forse un premier con una personalità politica dai più finora negata. Conte ha la debolezza tipica di un capo di governo che non è capo di un partito, ma che, proprio per questo, può rivelare una sua forza: quella di chi fa una cosa non perché gliel’abbia ordinato il dottore.
La risposta al suo “appello alla responsabilità” non verrà dalle parole, più o meno in libertà, dei due capi di partito e vicepremier Di Maio e Salvini, ma dall’azione di governo e dai comportamenti politici delle due forze associate nel “contratto di programma del cambiamento”: sono queste azioni e questi comportamenti, a partire dai negoziati con l’Unione Europea sui conti pubblici, che ci diranno se il governo Conte resterà in sella, e come, o se, sotto la regia del Presidente Mattarella, si apriranno nuovi scenari per il Paese, ovvero elezioni anticipate.
Al di là delle dinamiche messe in moto dalla presa di posizione del premier, c’è un aspetto del suo discorso, trascurato dai commenti, che invita a riflettere oltre la politica quotidianamente sotto i riflettori mediatici e a interrogarci sul significato del “governo del cambiamento”. Nel suo discorso il premier ha associato il “governo del cambiamento” a una “politica anti-sistema” e, allo stesso tempo, a un “riformismo politico”. Per molti, messe insieme, le due cose fanno a pugni. Ma sembra questa la “scommessa di Conte”. Una scommessa davvero politicamente priva di senso? Consideriamo le cose fuori dagli schemi della cultura politica corrente.
Conte non è dimentico delle parole dette davanti alle Camere nel momento dell’investitura del suo “governo del cambiamento”: «Le forze politiche della maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e anti-sistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Nel discorso degli scorsi giorni c’è una continuità d’intenti politici che sfugge a chi vi ha visto solo un riposizionamento più moderato rispetto a un anno fa. Conte, infatti, ripropone ancora il linguaggio della “rivoluzione”: 1) nel bilancio dei provvedimenti presi nel primo anno di governo vede la volontà di dare risposta ai cittadini che chiedono una «rivoluzione» rispetto alla politica degli ultimi decenni (nel campo del lavoro, delle pensioni, del reddito, della sicurezza e dell’immigrazione, della spesa pubblica ecc.); 2) nel ricordare i prossimi obiettivi di governo, parla di una «rivoluzione» del quadro legislativo, necessaria per dare efficacia al cambiamento, per arginare gli effetti perversi e iniqui di un mercato e di rapporti di forza tra soggetti privati lasciati a se stessi. Questo riferimento alla rivoluzione non è solo retorico. Segnala che Conte intende il suo governo come espressione di una “politica anti-sistema”: di una politica che vuole “rivoluzionare il sistema”. Nella visione politica di Conte, il suo governo rifiuta la politica che ha dominato nelle democrazie europee durante gli ultimi 30-40 anni, le scelte neoliberali dei governi di centrodestra e di centrosinistra, orchestrate dalle istituzioni dell’UE, perché quel sistema ha portato aumento delle diseguaglianze e dell’esclusione sociale, impotenza dei cittadini e della democrazia, “vite di scarto” nutrite da migrazioni sgovernate, intere parti del pianeta lasciate nella miseria, impoverimento culturale e morale generato dal “politicamente corretto”, perdita di credibilità dei mezzi di informazione. La politica anti-sistema non è una panacea che sana di colpo le crepe accumulate nel tempo dalla nostra società. Spesso i suoi interpreti difettano della forza e delle capacità necessarie per centrare i loro obiettivi. Ma già il fatto di mettere in radicale discussione, da posizioni di governo, il “migliore dei mondi possibili” narrato dall’ideologia neoliberale è di per sé una sfida rivoluzionaria alla sua egemonia.
Ma nel suo discorso Conte ha fatto ricorso anche al linguaggio del “riformismo”. Ha dipinto il suo governo come un «cantiere riformatore», di un riformismo alle prese con un nuovo autonomismo regionale che non aggravi il divario Nord/Sud del Paese; con una profonda revisione del sistema fiscale (e non solo delle aliquote), per renderlo più equo e più efficiente; con una politica economica espansiva, capace di coniugare insieme crescita, spesa pubblica, giustizia sociale redistributiva e conti in ordine; con la creazione di un sistema di “economia circolare”; con una revisione della politica estera, degli accordi commerciali e delle regole dell’UE. L’opzione riformista di una politica anti-sistema è una sfida del nostro tempo. Difficile, ma politicamente importante per un Paese in attesa di risposte al suo malessere.
Il riformismo come cifra di un governo “populista” è una chiave che aiuta a precisare i contorni di una politica anti-sistema spesso equivocata. La politica anti-sistema, infatti, può essere rivoluzionaria nei contenuti e, allo stesso tempo, riformista nell’approccio. Rivoluzionaria, perché mira a cambiamenti radicali degli equilibri di potere e dell’economia, della politica dell’immigrazione o dell’ambiente, dominanti negli ultimi decenni; “riformista”, perché opera tramite riforme “strutturali” o “di sistema”. È una strada stretta, piena di insidie. Ma è davvero una strada impossibile e persino impensabile? Dopotutto, è stata, ad esempio, la via seguita in Italia negli anni ’60 dai governi del centro-sinistra storico, con il varo di una serie di “riforme di sistema” (economia sociale di mercato, welfare, sanità pubblica e istruzione obbligatoria, rapporti tra lavoro e capitale, servizi pubblici, diritti civili e sociali). Sebbene i risultati raggiunti siano stati in chiaroscuro, per qualcuno discutibili, fu il tempo di una “rivoluzione riformista”, di ispirazione socialdemocratica e popolare. Quell’esperienza, per le sue specificità storiche, oggi non è ricalcabile. Ma non per questo è un’esperienza politica che deve restare necessariamente sepolta. Sta alla nostra cultura politica saperla riprendere, aggiornare ai nostri tempi, reinventarla su misura per il nostro mondo e le sue priorità collettive. Inoltre, giova ricordarlo, qualunque giudizio se ne voglia dare, fu una “rivoluzione riformista” anche la strada che ha portato alla società neoliberale: quella sprigionata, da destra, da Margaret Thatcher nell’Inghilterra degli anni ’70 e poi affermatasi in tutta Europa, anche da sinistra. Sia l’esperienza italiana del centro-sinistra storico sia quella liberale della Thatcher rappresentano, ciascuna a suo modo, casi che mostrano come una “politica anti-sistema” possa andare al governo e cambiare una società che cambia (paradossalmente, sia detto per inciso, fu più moderata la prima esperienza e più radicale la seconda).
La dialettica odierna tra politica pro-sistema e politica anti-sistema si svolge però in un quadro politico ben diverso. In particolare, lo mostra bene il caso italiano, oggi vede la politica anti-sistema povera di legami con i poteri, le élites, la classe politica e dirigente disseminati nel sistema costituito: i suoi attori sembrano più estranei, anche culturalmente, alle “élites al potere” di cui parlava Wright Mills, l’antagonismo tra i due universi è più duro che in altre circostanze storiche, un muro ostacola il reciproco riconoscimento di legittimità democratica. Attraversiamo una fase in cui i rapporti tra i soggetti della politica pro-sistema e della politica anti-sistema sembrano dare vita ad un “gioco a somma zero”: o noi o loro. Ciò, prima di tutto, indebolisce la democrazia. In secondo luogo, toglie forza e orizzonti riformisti alla politica anti-sistema: ad esempio, rende difficile una “transizione pactada”, come l’ha chiamata Juan Linz nei suoi studi sulla transizione democratica da un vecchio a un nuovo sistema politico, economico, culturale. La transizione pactada facilita il successo, la qualità e la continuità di nuovi sviluppi della democrazia. Ma questo tipo di trasformazione democratica è possibile quando nei due campi contrapposti prevalgono i difensori “moderati” della conservazione e del cambiamento del vecchio regime, ossia quelli più aperti ad un compromesso riformista per transitare ad un nuovo regime.
Senza queste condizioni la politica anti-sistema perde i suoi ingredienti riformisti e rimane solo con quelli rivoluzionari, o sedicenti tali. In una prospettiva rivoluzionaria, la politica anti-sistema può avere successo solo se possiede la forza e i poteri necessari per ingaggiare uno scontro “a muso duro” con i “poteri di sistema” che in modo capillare pervadono la sfera della minuta vita quotidiana e quella della grande scena internazionale. In questo caso, è chiaro, si entra in una pura “logica del potere”, in quella logica della “politica pura” negata dalla retorica e dalla cultura democratica dominante: si passa, cioè, ad una politica dove tutto (o quasi) è lecito, e dove i Machiavelli e i Carl Schmitt rimettono in ombra i Locke e i Kelsen. Se si arriva a questa politica, vincere le elezioni o andare al governo non basta, come mostra la storia. Ma la storia mostra anche che, in democrazia, non c’è molto spazio per le rivoluzioni: è la lezione del grande liberale Tocqueville, che ha avuto pochissime anche se dirompenti smentite nel Novecento europeo. Ogni storia, è però vero anche questo, può contenere passaggi epocali imprevedibili, che sfuggono ai contemporanei. E non dovremmo nemmeno dimenticare che nelle cose umane, come ci ha suggerito di tenere presente un altro grande scienziato sociale, il conservatore democratico e liberale Max Weber, solo tentando l’impossibile qualche volta si raggiunge il possibile.
La politica anti-sistema, rivoluzionaria o riformista, se è cosa seria, è cosa complicata. C’è di che riflettere per il premier Conte. Per Di Maio e Salvini. C’è da riflettere anche per il PD che osserva il recente successo della sinistra danese costruito su risposte in tema di economia e immigrazione mutuate dalle politiche anti-sistema post-liberali, che annebbiano la distinzione tra destra e sinistra. C’è da riflettere per il Presidente Mattarella, consapevole che in gioco ci sono bandierine che si muovono sui media e nelle stanze del potere, ma anche risposte ai tanti colori del malessere di molti cittadini e a coloro che proprio non capiscono e non vogliono capire che senso possa avere la politica anti-sistema.
Conte si è ritrovato presidente del consiglio forzatamente,oltretutto senza nessuna esperienza politica precedente,in un ruolo alto ma affiancato da due vicepresidenti legati da un contratto che può essere svuotato ogni momento e in nome del quale riescono a far prevalere le loro diatribe.Un presidente tanto formale che inascoltato ma che ora tenta una presa di posizione,uno scatto di dignità di fronte a problemi sia interni che in ambito europeo difficilmente risolvibili con la politica attuale. Salvini gioca sulla paura degli italiani,ampliandola notevolmente, non spiegando per es. con dati statistici i veri flussi e la necessità ns interna…tasso di natalità molto basso,lavori che noi disprezziamo,politiche sociali di periferia che non esistono,salari bassi…queste variabili associate a problemi economici fanno si che gli italiani se la prendano con il diverso,l’immigrato,mentre il punto vero è la loro gestione,fin’ora fatta in modo confusionale e furbesca solo per guadagnarci ( all’italiana ). Intanto si prende il potere,pragmaticamente il fare,con mille nomine!!!Di Maio ,anzichè fare una politica antisistema come si presumeva sta facendo la politica vecchio stampo,voto di scambio con il reddito di cittadinanza,che reputo necessario, ma la sua applicazione vuole tempi lunghi ( assumere i navigator, dargli la giusta esperienza,organizzare gli uffici competenti).L’italia avrebbe bisogno di un cambiamento choc,non rivoluzione che a volte implica cruenza e non mi sembra il caso. Riformare ma in modo radicale ,burocrazia infinita che è diventata più di una gabbia d’acciaio ( serve per esercitare il vero potere),conflitto di interessi,magistratura collusa con la politica,fare un programma vero per la ormai applicazione di internet in tutti gli ambiti cambiando completamente il mondo del lavoro,interagire con le parti sociali,necessarie in una vera democrazia,riformare lo stato centrale con modifiche alle regioni,veri centri di potere,e le azzoppate province.Penso che se non si interviene in questi ambiti continueremo nei nostri piccoli e inutili scontri giornalieri,facile a dirsi ma se non iniziamo mai continueremo come da anni a fare sempre gli stessi discorsi.