(Uscito su “UniTrentoMag”, 12 novembre 2018 – Pubblicato su questo sito il 10 giugno 2019)
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Il movimento del 68 ha segnato per tutto il mondo una fase di profondo mutamento: un rivolgimento di equilibri stabilizzatisi progressivamente a partire dal secondo dopoguerra, l’espressione di una crisi di identità epocale. Una stagione di crisi che, ad esempio in Italia, vede combinarsi fine del boom economico e lotte politiche e sindacali, tensioni internazionali e guerre (fredde e calde), battaglie culturali e per i diritti civili, attori collettivi organizzati gerarchicamente o più “fluidi” e a “legame debole”, studenti di scuola e di università, cittadini in piazza. Comunque la si pensi, è anche da questa camaleontica stagione, da questo coacervo di soggetti individuali e collettivi, dalle loro imprese riuscite o fallite, che ha preso forma un mondo nuovo. Un mondo diverso da quello di oggi, che pure a suo modo lo ha incorporato. A distanza di mezzo secolo, il 68 è un’eredità multicolore: un pluriverso, più che un universo. Un lavoro culturale di riappropriazione critica di quell’esperienza può aiutarci a comprendere anche dove siamo oggi.
Il 68 è stato una stagione controversa già quando occupò la scena pubblica, e tale è rimasta. Hannah Arendt parlò di «rivolta mondiale», di un movimento caratterizzato «da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento». Giorgio Amendola, all’epoca autorevole dirigente del PCI, apostrofò il movimento come «rigurgito d’infantilismo». A ciascuno il suo 68. Ma certo è che negli anni intorno al ’68 nel mondo studentesco e giovanile, e presso non pochi adulti, si irradia una specie di esaltazione utopica, rara nel XX secolo e più ancora negli ultimi decenni. Un’utopia nutrita tanto da rabbia per ingiustizie sociali, discriminazioni e guerre, quanto da candida credenza, oggi nemmeno immaginabile, che stesse nascendo una società nuova, che fosse possibile “fare la rivoluzione”, che un mondo migliore fosse davvero a portata di mano.
Se dovessimo sintetizzare con poche parole la cultura politica identificante la mobilitazione giovanile del 68 sceglieremmo “rivoluzione” e “controcultura”, “contestazione” e “anti-autoritarismo”. In questa cultura politica si affastellano, gli uni accanto agli altri, antagonismo manifesto, fratture generazionali, cambiamenti nella sfera pubblica e in politica, nei valori e negli stili di vita. Da qui rivolte studentesche, occupazioni, marce, scioperi, scontri con la polizia; ma anche liberazione della sessualità, emancipazione della donna e dei gay, liberazione dell’università, passione ecologica, contestazione dei genitori e delle autorità, delle leggi, dei valori e dei costumi del “mondo dei matusa”; e ancora: passione per il folklore e la musica “nuova”, per la poesia e la letteratura della Beat Generation, per gli allucinogeni, la psichedelia e l’orientalismo; interesse per la teologia della liberazione e il Concilio Vaticano II, critica dell’imperialismo e delle guerre, invenzione di una “nuova sinistra” (e poi di una “nuova destra”), sostegno a Praga, a Cuba o al Vietnam.
Ma chi erano questi giovani del 68, protagonisti di una sorta di “fronte internazionale”, che esprimevano o che credevano di condividere un idem vedere a Berkeley, San Francisco o Chicago, a Città del Messico o Buenos Aires, a Tokyo o Pechino, a Praga e Varsavia, a Berlino, Parigi, Torino e Milano, a Roma o a Trento? Erano la “generazione del boom economico”. Figli della “generazione eroica” del primo ‘900: di persone che avevano vissuto e sofferto le guerre, e che si erano rialzate. Erano, per lo più, ragazzi e ragazze che non avevano patito sofferenze, ma nemmeno assaporato l’eroismo permeato da grandi slanci ideali o affrontato grandi prove, come era accaduto ai loro genitori; giovani che avevano tutte quelle cose che i loro genitori non avevano avuto: benessere, istruzione, pace, democrazia, opportunità. Ma allora perché protestavano e si ribellavano? Anche qui, i giudizi dell’epoca, ma anche quelli storici, divergono. Per gran parte degli schieramenti ideologico-politici e culturali del tempo, per giornali e TV, erano dei “borghesi figli di papà”, fascisti o protofascisti, o dei “figli di Nietzsche”, snaturati e drogati, che volevano distruggere la Tradizione, oppure degli “emissari del capitalismo”. Giudizi taglienti di questo tenore, non sempre senza base politologica e sociologica, vennero, ad esempio, da un intellettuale scomodo come Pier Paolo Pasolini o da Habermas, allora rampollo della Scuola di Francoforte.
Per l’intellettualità che criticava la società capitalista e tecnodemocratica o per i democratici radical, i giovani del 68 erano in rivolta contro “un mondo fermo”, paralizzato e disperato: il mondo della Guerra Fredda e dell’angoscia atomica. Altri contemporanei, invece, non sembravano neppure accorgersi che quei giovani, al passo di rivolte e utopie, stavano mettendo in scena un passaggio d’epoca e generazionale che avrebbe avuto effetti lunghi, anche quando imprevisti o perversi.
Sulla scia di Marcuse, tra i più lucidi e simpatetici interpreti di questa generazione è stato Roszak. In un suo ormai “classico” saggio dell’epoca, egli presenta l’esplosione del movimentismo sessantottino come espressione di una “frattura generazionale” e della “nascita di una controcultura”. Questa controcultura non si esauriva nell’onda idilliaca degli hippies o in quella più trasgressiva dei freaks, non era solo “figli dei fiori” e “mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Vero è che essa non arriva ad esprimere la radicalità antropologico-filosofica dell’”uomo in rivolta” di Camus, tuttavia a suo modo assume forme e contenuti di una rivolta radicale contro la società tecnodemocratica, contro l’american way of life e i correlati valori che si spargevano in tutto l’Occidente. Nell’esplosione di questa rivolta lavora, spesso sotto-traccia, un contro-paradigma di vita, di ideali e rituali sociali che rifiuta quello dominante centrato su università, matrimonio, figli, carriera, pensione. I giovani del 68, alla fine, appaiono come una “strana” opposizione radicale a quel mondo “vecchio e ingiusto”, “rigido e chiuso” che pure li aveva cullati.
Non mancano buoni argomenti per criticare o sfumare simili letture 68, a maggior ragione col senno di poi. È però innegabile che il 68 abbia dato voce a domande di partecipazione pubblica, a bisogni, rivendicazioni e ideali collettivi, originariamente studenteschi ma che presto si allargano a motivi di più ampia portata generazionale o si allacciano a contenuti più trasversali (femminismo, anti-conformismo, anti-autoritarismo, critica del “sistema” capitalistico, borghese, imperialistico).
Si è certo trattato di una cultura “volontaristica”, che premeva per un cambiamento “radicale” e che per realizzarlo, non va nascosto, è anche arrivata a fare del settarismo politico un suo tratto, abbinato a un estremismo ideologico che porterà una sua frangia alla deriva dell’estremismo armato. Ma alle spalle di questi estremismi e settarismi, non va nascosto neppure questo, protagoniste sono le piazze e le passioni che le attraversano. E’ In questo intreccio di ideali emancipativi e loro smottamento nel terrorismo dei gruppi organizzati che è racchiusa, in particolare, la cifra enigmatica del “lungo 68” italiano.
io ero presente,che periodo!!! Gia in terza media si respirava aria di cambiamento,il vento con istanze ,speranze di cambiare il mondo era fortissimo.Tutto questo con il boom economico rendeva realizzabile tutti i sogni immaginabili,specialmente per la classe operaia che in quel periodo riuscì a essere organizzata come non mai,affiancata da studenti e buona parte del ceto medio alto.Tutti a chiedere qualcosa di nuovo,quello che sembrava giusto per una società ingessata da un capitalismo familiare,una chiesa inamovibile come sempre,una politica frammentata in vari partiti ma uniti per mantenere il potere sulle masse e poco inclini,forse timorosi dei cambiamenti. Solo l’estremismo,,,fascisti e comunisti… si rivelò maggiormente presente dando sfogo a tutte le negatività del caso (brigate rosse,episodi spesso con scontri cruenti scaturiti anche da semplici scioperi,etc). Destra e sinistra tutti seduti allo stesso tavolo come oggi era inimmaginabile,era sempre scontro di piazza. Con il senno di poi tante promesse e istanze promulgate specialmente dai partiti più inclini al cambiamento sociale sono affogate nella liquidità sociale iniziata con la caduta del muro di Berlino,fine della guerra fredda,sfociato in questo neoliberismo che ha imbrigliato non poco la politica elevando il dio denaro a punto di riferimento.In forme diverse oggi sono tornate le richieste di cambiamento,le disuguaglianze sono aumentate e ci ritroviamo in un altro periodo di cambiamento epocale di transizione in cerca di nuovi assetti sociali.