(Uscito su “Trentino”, 6 settembre 2018; “Alto Adige”, 6 settembre 2018 – Pubblicato su questo sito il 4 giugno 2019)
–
Dal secondo dopoguerra le democrazie europee sono state per lo più governate da partiti di centrodestra o centrosinistra che avevano una visione convergente della società e dell’economia. Nonostante le differenze in talune scelte di policy, queste forze hanno incarnato un consenso ideologico condiviso, i cui pilastri sono stati (dove più, dove meno) un’economia basata sul mercato (liberalizzazioni, privatizzazioni, concentrazioni economiche); uno schiacciante prevalere della logica dei beni privati e una mortificazione dei beni pubblici e comuni; un arretramento dello Stato nella fornitura di beni e diritti di cittadinanza (sanità, istruzione, assistenza sociale, pensioni, risorse energetiche). Altri pilastri di questa ideologia condivisa sono stati l’apertura dei “mercati nazionali”, con la libera circolazione di capitali, beni, servizi e persone (globalizzazione); la creazione in Europa di un “mercato unico”, che si è presto rivelato incongruo, specie nel caso della libera circolazione delle persone, come indicano gli egoismi e la miopia di tutti i governi nazionali e della stessa UE di fronte alla crisi migratoria di questi anni.
Da tempo molti cittadini lamentano che le politiche e i partiti che hanno governato il sistema per decenni hanno fallito. Istruzione di massa, sistema fiscale progressivo, welfare e diritti di cittadinanza, le colonne del vecchio “compromesso socialdemocratico” tra liberali, cattolici e socialisti, non sono riusciti a prevenire l’aumento delle diseguaglianze, il peggioramento dei livelli di giustizia sociale, le offese a una società decente, il decadimento della dignità umana di troppi e della qualità della libertà di tutti. Oggi i partiti tradizionali vivono in uno stato di afonia progettuale. Ad anni di acculturata professionalità nell’uso delle parole (“narrazione”) nel descrivere ed esaltare il bene della società neoliberale non ha corrisposto una politica di equa redistribuzione dei costi della crisi e di risposta al malessere della società, né una capacità di disegnare un futuro per i giovani o un orizzonte per le aspettative frustrate anche del ceto medio. Ciò, alla lunga, ha avuto un impatto elettorale. Decine di milioni di cittadini non vanno più a votar, o votano per partiti “anti-sistema”: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, Front National in Francia, Trump negli Stati Uniti, la Brexit in Gran Bretagna, M5S e Lega in Italia, per tacere su Polonia o Ungheria, ma anche Austria, Danimarca e, in tono minore, persino Germania.
Il messaggio demo-elettorale di questi ultimi anni è chiaro: interi pezzi della società sono insoddisfatti dei partiti tradizionali. Da qui un voto che esprime la volontà di dare un’opportunità di governo a forze politiche anti-sistema che promettono soluzioni alternative allo status quo. In Italia, ad esempio, le reazioni, tra loro opposte, alla tragedia del ponte di Genova o al drammatico peregrinare di migranti tra mari e porti non fanno altro che dare risalto alla profonda lacerazione della società e della politica. Tolte le specifiche dei diversi contesti, questo quadro vale un po’ per tutto il mondo occidentale.
A partire dal crollo del Muro di Berlino, passando per l’attacco islamista alle Torri Gemelle, e arrivando alla crisi economico apertasi nel 2007-2008 e quella migratoria degli ultimi anni, il nostro mondo ha preso congedo dall’idea (ingenua o strumentale) che Occidente e liberaldemocrazia fossero arrivati a un ordine sociale, culturale, politico e internazionale definitivo e immutabile: l’hegeliana “fine della storia” volgarizzata e aggiornata a noi da Fukuyama. Tale idea è stata a lungo sostenuta da gran parte dei politici, intellettuali, accademici e media. Molti sono stati e molti sono pure oggi i Panglos a spiegare urbi et orbi consistenza e bontà di quell’ordine, forse non perfetto, dicono, ma di sana e solida armonia: civile e meritocratico, senza improvvidi confini, senza retrivi contenuti identitari o comunitari. Insomma: il “migliore dei mondi possibili”. Abbiamo così chiuso gli occhi sul serpeggiare dei conflitti tra valori, culture, identità, interessi, ad esempio denunciando come improvvide le tesi sullo “scontro di civiltà” o rimuovendo ogni idea di lotta di classe: siamo stati abbagliati dal generoso multiculturalismo, siamo rimasti ciechi sulle tristi disuguaglianze.
L’armonia attribuita a quel mondo neoliberale si è rotta, e il suo ordine annaspa. Ciò rende necessario riflettere su due ordini di problemi. In primo luogo, sulle responsabilità dei gruppi dirigenti e intellettuali, per il semplice fatto che essi hanno voluto, governato, “narrato” e legittimato quell’ordine e la sua panglosiana armonia. La nostra crisi chiama in causa il fallimento collettivo di élites economiche, politiche e culturali: quella “ribellione” delle élites cosmopolitiche che, nella diagnosi di Lasch, han tradito la democrazia cessando di essere responsabili verso le loro genti e di prendersi cura delle loro comunità. In secondo luogo, dobbiamo rifocalizzare l’attenzione sui sentimenti di frustrazione, delusione e rabbia di una marea di cittadini che si sente politicamente emarginata, che è culturalmente impoverita e socialmente allo sbando. Troppe le persone che vivono la paura delle crescenti diseguaglianze. Troppe quelle esposte alle sfide anche socio-culturali e identitarie, e non solo economiche, rappresentate, ad esempio, da agglomerati di immigrati e profughi in attesa di permesso di soggiorno in degradati siti urbani o nelle periferie, in troppi sensi ai margini della nostra società. I migranti, va detto, rappresentano una sfida radicale perché chiedono “un posto a tavola”, e non lo trovano, al di là di ogni buonismo o cattivismo degli “autoctoni”, per il semplice fatto che i posti a tavola si vanno riducendo mentre le idee su come riapparecchiare la tavola latitano o sono indigeste a chi un posticino ce l’ha o a chi a nulla vuole rinunciare.
Il nostro modello di società e di sviluppo è alle corde, e con esso la politica pro-sistema che l’ha interpretato. Cresce il numero di donne e uomini, istruiti o meno, ben occupati, mal occupati o disoccupati, che han voltato le spalle ai partiti che avevano seminato le virtù palingenetiche del “mondo nuovo” neoliberale e che ora sono a raccogliere l’impoverimento delle condizioni di vita materiali e identitarie, lo sbriciolarsi delle aspettative verso il futuro e per i figli, i conflitti intorno ai valori e alle risorse di giustizia e civismo, di eguaglianza e libertà, di benessere e sicurezza. A essere in gioco le cose che da sempre i governati chiedono ai governanti in cambio del potere e della legittimità a governare. Oggi milioni e milioni di cittadini, per la salvaguardia di questi valori e risorse, si rivolgono sempre meno alle tradizionali forze “pro-sistema” e sempre più alla politica dei “populisti” o “sovranisti” (come si suole etichettarli e squalificarli). È qui la linfa vitale della politica “anti-sistema”: la domanda di una “politica del cambiamento” e non più di semplice aggiustamento del sistema. Le forze politiche e culturali di ispirazione popolare, socialista, liberale o senza ispirazione, oggi mostrano preoccupazione. Ma guardano troppo al dito e poco alla luna. E s’immolano all’autunno del consenso neoliberale.
Al “permissive consensus” su cui si erano attestati trasversalmente gli elettorati delle democrazie occidentali nel trentennio keynesiano si è sostituito, in via parimenti trasversale, un “consenso neoliberale”, che ha visto le forze socialdemocratiche fare proprie le verità escatologiche market friendly. Sebbene non manchino voci tese a rilevare che detta ricetta non abbia affatto comportato la contrazione della spesa sociale, credo sia non di poco conto rilevare come l’adozione di paradigmi quali workfare e social investment comportino strategie di impiego welfaristico del tutto funzionalizzate a valorizzare risorse sociali utili al mercato, marginalizzando le esigenze di quelle meno remunerative. Di qui, le distorsioni distributive e l’effetto Matteo per cui, pseudoevangelicamente, “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Se la cifra continua a essere tale…il transito dall’autunno all’inverno non è così improbabile. Purtroppo, per tutti.