(Uscito su “Trentino”, 12 giugno 2018; “Alto Adige”, 12 giugno 2018 – Pubblicato su questo sito il 30 maggio 2019)
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Il manifestarsi di un popolo che getta calamità su se stesso, che scaraventa macigni contro diritti, libertà, garanzie costituzionali, economia e risparmi, ordine internazionale, e che ha trovato compimento nel neo-nato governo Conte a maggioranza M5S-Lega. Questo ha significato il voto del 4 marzo secondo molti osservatori. Un esito disastroso, paragonato al Brexit o all’elezione di Trump negli Usa. Sono reazioni che non sorprendono: il voto italiano ha visto il successo della politica “anti-sistema” contro quella “pro-sistema”, identificata tout-court con la difesa della liberaldemocrazia, senza specificazioni o approfondimenti sulla qualità di una democrazia. Tali reazioni sono diffuse pure in ambienti accademici e intellettuali, oltre che tra gli esponenti del centrosinistra piddino, ieri al governo e oggi minoranza in difficoltà. Siamo di fronte a una cultura secondo cui, in definitiva, troppi cittadini sarebbero irrazionali e malinformati, al punto da fare scelte terribili a loro danno. L’argomento non è privo di fondamenti. Ma dovrebbe valere sempre e non solo quando alle elezioni vince chi non ci piace, né dovrebbe rimuovere il fondamento popolare della democrazia che pure, lo sappiamo, è modellato dentro vincoli costituzionali.
In un recente e sintomatico libro, il politologo Mounk, rilanciando una tesi già nota e portata alla ribalta da Zakaria, afferma che il problema della politica oggi è «popolo contro democrazia». Mounk, però, evita di riflettere sui molti modelli di democrazia, liberalismo e populismo presenti nella storia e nel pensiero politico. Il risultato è che, in questo libro come in molta pubblicistica, troviamo mescolati insieme, anche in modo tendenzioso, cose diverse, e in particolare populismi diversi: populismo e neopopulismo, neopopulismo di destra e neopopulismo di sinistra, neopopulismo anti-democratico e neopopulismo democratico, neopopulismo pro-sistema e neopopulismo anti-sistema. Nel libro di Mounk troviamo anche che l’incontro storico fra tradizioni democratiche e tradizioni liberali è ridotto alle liberaldemocrazie dei nostri giorni: come se queste rappresentassero l’unico pensabile e realizzabile sistema politico libero, fondato su una sovranità popolare calibrata da divisione dei poteri e da costituzione. Ma, soprattutto, la tesi del «popolo contro democrazia» elude la questione di fondo: se le liberaldemocrazie o postdemocrazie di oggi siano riuscite davvero oppure no a coniugare insieme equità e giustizia, eguaglianza e libertà, diritti e doveri, regole costituzionali e sovranità popolare, élites e masse, meritocrazia e pari opportunità, finanza in ordine e decenza sociale, coesione europea e interessi nazionali, apertura dei mercati e tutela dei più deboli. Se si aggira tale questione, diventa facile dare per scontato che le nostre democrazie a capitalismo di mercato siano senza alternative ragionevoli, e perciò da salvaguardare ad oltranza, “a prescindere”. Diventa facile la morale della favola: chi esprime disagio rispetto all’ordine democratico neoliberale o lo rifiuta, è per definizione cittadino di serie B, oppure “cattivo maestro”.
È sbagliato, pericoloso e ingiusto dividere i cittadini tra illuminati e oscurantisti. Tra civili e barbari. E arriviamo all’insinuante titolo del Financial Times del 14 maggio dedicato all’Italia, nel bel mezzo di una delicata stagione, e alle prese con la formazione del governo dopo “elezioni (davvero) terremoto”: «Roma apre le sue porte ai moderni barbari».
Il Financial Times gode di grande autorevolezza e ha piena facoltà di esprimersi liberamente. Ma, non va dimenticato, la sua autorevolezza non toglie che sia portatore di idee ed interessi di quel mondo che ruota attorno alle dominanti élites economiche, tecno-burocratiche, politiche e culturali. Con il suo discorso pubblico a suo modo contribuisce, insieme ad altri autorevoli organi di stampa, a definire chi sarebbe illuminato e chi villano, a dividere tra civili e barbari, a “fare opinione pubblica” a favore di una certa visione della società e a squalificarne altre, a dettare ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, spesso con prosopopea manco velata. Com’è naturale, le posizioni di un Financial Times sono partigiane, e stanno dalla parte dell’ordine neoliberale e delle forze economico-sociali e politiche che lo incarnano e che da esso traggono potere e vantaggi. Nemmeno il Financial Times è “il Dio di tutti”. La sua voce rappresenta una parte del mondo, è in linea con un certo “elitismo democratico”, con poteri e interessi “forti” e con la loro immagine di società. Dico questo senza timore di essere ingabbiato nella “trappola” del cospirativismo o del dietrologismo. E aggiungo: chi non accetta l’esistenza di di poteri “dietro le quinte” del palcoscenico democratico credo sia fuori dal mondo; come ricordò anni fa un sociologo schiettamente democratico e liberale come Pizzorno, accanto alla politica “visibile” c’è quella “invisibile”. E aggiungo ancora, a correggere il maestro, che la politica visibile (nel bene e nel male) non è meno importante di quella invisibile, come egli invece sosteneva: è anche lì, infatti, che si gioca l’egemonia culturale. Suggerisco perciò di dismettere la retorica dei barbari, oppure di prenderla sul serio. Come fece il poeta greco Kavafis nel 1898.
Il suo poema mette in scena la grande civiltà dell’Impero Romano che s’incontra con i modi spicci e rozzi dei Barbari. Priva di vitalità la prima, straripante di forza vitale i secondi, tratteggia Kavafis: «Cosa aspettiamo qui riuniti al Foro? Oggi devono arrivare i Barbari. Perché tanta inerzia al Senato? E i senatori perché non legiferano? Ma che leggi possono fare i senatori? Venendo i Barbari, le faranno loro. Perché l’imperatore si è alzato di buon’ora e sta alla porta grande della città, solenne in trono, con la corona sulla fronte? Oggi arrivano i Barbari e il sovrano ha pronta la pergamena da offrire loro in dono, dove gli riconosce titoli. Perché i nostri Consoli e Pretori stamane sono usciti in toga rossa ricamata? Perché portano bracciali con tante ametiste e anelli con smeraldi?… Perché tutto a un tratto questa inquietudine e agitazione? Oh, come i visi si son fatti gravi. Perché tutti fanno ritorno a casa preoccupati? Perché è già notte e i Barbari non vengono: è arrivato qualcuno dai confini a dire che di Barbari non ce ne sono più. Come faremo adesso senza i Barbari? Dopotutto, quella gente era una soluzione».
Come ha colto anni fa un commentatore del poema, «quando il contenuto formale di una comunità politica, la sua legislazione e le sue istituzioni politiche, i suoi rituali del potere sono sproporzionati rispetto alla forza vitale di un popolo, allora questa stessa forma invita ad essere invasa». L’Impero appare sul punto di crollare, la sua macchina politica e la sua cultura si sbriciolano in macerie? Chissà. Non sappiamo. Ma se sarà, sarà colpa dei barbari o della crisi delle élites?