(Uscito su “Trentino”, 31 gennaio 2017; “Alto Adige”, 31 gennaio 2017 – Pubblicato su questo sito il 28 maggio 2019)
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Anche Bruce Springsteen. Ad attaccare apertamente il neo-presidente americano Trump è sceso in campo anche lui. Il cantautore-rock americano, stella dello star-system mediatico internazionale. In occasione dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca abbiamo assistito, come già nei mesi di campagna presidenziale e dopo la vittoria di Trump su Hilary Clinton, a una vistosa e pubblicizzata mobilitazione di piazza “contro”: a Washington, qua e là negli Stati Uniti e anche in Europa. Tra gli slogan più gettonati: “È l’ora di una nuova resistenza!”. E, così, pure il cantore di “Burn to run” e di “Working on a dream” non ha esitato: “I nostri cuori e il nostro spirito sono con i milioni di persone che ieri hanno marciato: siamo parte di una nuova resistenza!”. Qui non mi interessa soffermarmi su Trump, sui suoi atteggiamenti o discorso politico: un personaggio enigmatico, che certo ha disorientato molti e smosso gli orizzonti di “politica unica” dove l’Occidente è scivolato da tempo, sotto l’egida politica, economica, culturale e mediatica di élite intrecciate tra loro. Qui mi interessa Springsteen, osannata icona musicale di generazioni di giovani e meno giovani. E collocare in una prospettiva il suo appello alla resistenza (contro Trump): oggi, mentre le nostre teste spazzano via anche le briciole di un “è possibile fare diversamente”, e ogni capacità di immaginare un mondo e un vivere un po’ diversi.
Da chi ha cantato di gioia e di rabbia, di fughe dalla desolazione materiale e umana della nostra società, a strappi di sogni e di Icari che si schiantano (e non si sa bene se per superbia o stupidità proprie o per imbecillità del mondo), da Springsteen non ci aspetteremmo solo questo: una scontata presa di posizione, tutta pragmatica: tutta compressa dentro una apertura di ali piccola piccola, che va dal vittorioso e sgradito Trump alla perdente e gradita Clinton. Ma Trump e Clinton rappresentano davvero due opzioni alternative per i problemi cruciali del nostro mondo o semplicemente due varianti? Dal poeta con chitarra e armonica che tanto ha svelato di uomini e donne, di condizioni sociali ed esistenziali, che ha mostrato vite e ferite fino alle loro radici, oggi vorremmo altro sguardo, un volo un po’ più alto. In “Nebraska”, con vetrosa delicatezza Springsteen penetra fino all’abisso dell’animo umano, attraverso la storia (o la sorte?) di un balordo e della sua bella (o di un diseredato sociale? di un nichilista assassino? o di uno di noi e la sua donna?). Uno sguardo che scuote, pugno allo stomaco, musica che punge il cuore: “Hanno deciso che non sono degno di vivere e che la mia anima deve essere gettata nel grande vuoto; volevano sapere perché ho fatto quello che ho fatto; bene signore, credo che ci sia solo malvagità in questo mondo”.
Allora, ai tanti Springsteen di questo tempo: continuate pure a fare la resistenza contro i Trump di turno. Ma provate anche ad alzare il vostro sguardo. O a indossare un vestito nero: non perché fa elegante, non perché di moda. Volete qualche spunto per farlo? Vi risceneggio in libertà una vecchia canzone di Johnny Cash. Dice di un tale al quale chiedevano perché vestisse sempre di nero, perché non lo si vedesse mai con colori vivaci; e che rispondeva: beh, una ragione c’è. E diceva: vesto di nero perché vedo in giro poveri sprofondare, con le dita ad annaspare negli angoli nascosti di città, in villaggi o tra le onde del mare, e la miseria sulla pelle; e poi donne e uomini prigionieri in gabbie vuote, condannati di quel crimine che è il voler vivere con dignità. Diceva: vesto di nero per quelli che hanno letto o sentito le parole di Cristo, di Allah o di un Buddha, ma anche per quelli che non le hanno lette e sentite, per quelli che leggono o sentono altre parole: gli uni e gli altri in cerca di giustizia e libertà, di amore e felicità, tutti troppo spesso a mani vuote. E ancora: vesto di nero per i malati che non ce la fanno, per i vecchi che rimangono soli; ma anche per qualche irresponsabile che ci ha messo del suo e ora o s’agghiaccia su una strada senza ritorno o sfreccia su un’altra corsia; vesto di nero per i tanti che sono morti credendo che il Signore o la Storia fossero dalla loro parte, e per quegl’altri morti perché convinti che invece fossero dalla loro parte. E ancora: metto il nero già al mattino, per le vite che avrebbero potuto essere, quando ogni giorno perdiamo ragazzi e bimbi che manco più sappiamo quanti.
Certo, a guardarci in faccia sembra che stiamo abbastanza bene, almeno in certe lande: strisce di vetrine luccicanti e abiti a fantasia. Ma è una vista da lontano, o agli occhi di chi non riesce a vedere oltre. È vero, ci sono cose che non potranno mai essere giuste, o raddrizzarsi. Lo so anch’io. E cose da cancellare ci si parano ovunque si vada: il paradiso non è di questi paraggi. Ma finché non cominciamo da un qualche punto, finché non ci mettiamo testa, cuore e braccia, non è stranezza imbattersi in un tale che non veste colorato.
Anche quell’uomo in nero vorrebbe l’arcobaleno, ogni giorno. E dire a voce chiara che i nostri quartieri sono sani, gli sguardi dritti e puliti, che sappiamo fare i conti con terremoti e durezze delle stagioni, con barconi di uomini, donne e bimbi che arrivano senza prenotazione. Ma fin quando, di là dai monti e dai mari o sottocasa, la decenza del vivere è sfigurata, che ci sia qualcuno senza trucco in volto, perdio! E che se ne sbatta della resistenza di Springsteen & compagnia bella contro i Trump ultimi arrivati. Perché è questo mondo grigio a farli volteggiare nei colori.