C’è vita oltre la legalità? Senso civico, senso critico, disobbedienza nella “democrazia rigida”

C’è vita oltre la legalità?

Senso civico, senso critico, disobbedienza nella “democrazia rigida”

 

  1. Introduzione

Secondo la teoria della scelta pubblica[1] gli uomini politici tendono a usare strategie manipolatorie nei confronti dei cittadini-elettori: li corrompono durante le campagne elettorali facendo le promesse più seducenti[2]; è prassi consueta che nel loro lavoro i politici siano generosi nell’appoggiare gli uni gli intrighi degli altri, con la conseguenza di favorire interessi particolari a danno dei cittadini che non giocano a questo tavolo. Un messaggio importante della teoria della scelta pubblica dice, sostanzialmente, che politici, burocrati e lobbisti vari si comportano in maniere opportunistica e/o particolaristico-utilitaristica, perseguendo i propri interessi e quelli dei gruppi di coloro con cui fanno “i loro affari”.

Si tratta di un’immagine talmente cinica della politica, che invero non caratterizza nemmeno il pensiero del realista Machiavelli, bensì quello del machiavellismo dominante, di maniera e spicciolo a cui si rifanno coloro che confondono la parte con il tutto quando citano il grande Fiorentino a mo’ di pensierini da Baci Perugina, benché ben più amari e inaciditi. Ciò detto, risulterebbe però assurdo non riconoscere che il modo di agire della e nella politica e la logica delle policies evidenziati dalla teoria della scelta pubblica trovano non poco riscontro nella vita anche di quelle società contemporanee che orgogliosamente si autoproclamano democrazie liberali. Restano però due critiche di fondo che, dal mio punto di vista, inducono a rivedere il giudizio complessivo sulla pregnanza della teoria della scelta pubblica: primo, il mondo non è così semplice e unidimensionale come essa lo dipinge sulla scorta dell’assunto dell’attore razionale e della scelta razionale e dell’assunto che identifica la razionalità dell’agire sociale tout-court come razionalità strumentale, utilitaristica ed egoistica, svuotandola di ogni altra specificazione[3] ; secondo,  qualora il mondo fosse così semplice come lo ritrae la teoria della scelta pubblica, la cultura politica dominante che in tale guisa lo plasma e vi si adagia, al di là della retorica che essa agita, è una cultura devitalizzata la quale, in definitiva, di fronte alle storture della società contemporanea che pure denuncia, si rivela paralizzata e paralizzante, al punto da non consentire neppure di comprendere come e perché gli orizzonti di possibilità che intridono l’idea di democrazia e la sua storia oggi fatichino persino a essere pensabili. I comportamenti degli uomini e i loro sistemi istituzionali, le regole e la loro efficacia dipendono dal contesto – e dalla sua cultura (politica): su questo la nostra epoca fatica a esercitare l’autoriflessività.

 

  1. Senso civico. Il nome e la cosa

La demos-crazia chiama in causa il “buon cittadino”. Un cittadino la cui identità pubblica è definita da quelle che un tempo erano denominate le virtù civiche, le “virtù del cittadino”[4], e che oggi solitamente chiamiamo anche “senso civico”. Nella democrazia moderna, a questo riguardo si fa riferimento a un orientamento, innanzitutto valoriale, che promuove le “competenze civiche”[5] di cittadini chiamati ad autogovernarsi secondo principi e leggi, procedure e istituzioni che essi stessi hanno stabilito per le loro democrazie costituzionali. In quanto tale, il senso civico, in primo luogo, esprime un principio normativo (un dover essere): nella misura in cui i cittadini vi si conformano, tale principio guida la loro condotta nell’ambito della res publica. In secondo luogo, il senso civico si qualifica anche come un insieme di “abitudini del cuore”[6], e non solo come “calcoli della testa”. Il buon cittadino, in particolare, è colui che ha consapevolezza del suo status di cittadino, ossia di membro della polis, della sua “comunità politica”, e che, inoltre, ha consapevolezza delle aspettative di comportamento e relazionali associate a tale status e vi si conforma. Il buon cittadino è il cittadino guidato da un civismo politico (e non solo da un “civismo adattivo”)[7]: ossia è guidato da una cultura politica che combina insieme “passione” per la cosa pubblica e “competenza” civica, l’una e l’altra alimentate da tradizioni politico-culturali, da tessuti comunitario-territoriali, da reti associative, da agenzie di socializzazione (a partire dalla famiglia e dalla scuola)[8]. È questa “coscienza di cittadino” che consente alla comunità politica, di cui il singolo individuo e i gruppi sono membri, di funzionare secondo modalità più prossime a quelle proclamate e dettate dai principi democratici (o liberaldemocratici). In breve, buon cittadino è quel cittadino che nella sua condotta e nelle sue valutazioni (come singolo o associato in gruppi) è soggetto attivo del senso civico.

A voler dettagliare i caratteri del buon cittadino, ossia gli indicatori o modi del senso civico, l’homo civicus è il cittadino qualificato da: interesse per la politica; partecipazione  politica e associativa; impegno (individuale e associativo) a favore della “cosa pubblica”, informazioni e conoscenze relative alla sfera politica; fiducia (interpersonale e diffusa o generalizzata; orizzontale e verticale); rispetto delle norme, delle regole e delle istituzioni che governano la comunità politica. Vagliato in questi suoi caratteri essenziali, il senso civico esprime un rapporto simbiotico tra le due facce della cittadinanza: quella dei diritti/benefici e quella dei doveri/costi con i quali i cittadini hanno a che fare in democrazia[9]. I modi in cui i cittadini, con i loro atteggiamenti e comportamenti, con i loro valori e orientamenti, interpretano il loro status di cittadinanza e si pongono di fronte ai caratteri che qualificano come virtuoso il buon cittadino, tali modi sono le manifestazioni (che affermano o negano, a seconda dei casi) quella sindrome di cultura politica democratica che qui chiamiamo la cultura del senso civico (civicness).

A dire il vero, nella letteratura politologica e sociologica i caratteri e le modalità del buon cittadino li troviamo rubricati anche quali indicatori o manifestazioni di ciò che, volta a volta, viene etichettato come cultura civica, comunità civica, capitale sociale, capitale comunitario. Questa circostanza dell’uso di una molteplicità di etichette per una serie di fenomeni affini porta a una prima questione legata alla nozione di senso civico: la questione del “nome” e della “cosa”. Nelle scienze sociali troviamo infatti differenti “linguaggi nominanti” riferiti, almeno in ampia misura, alla medesima “cosa nominata”. La varietà terminologica utilizzata per denominare un fenomeno denotato da un medesimo insieme di proprietà, indicatori o manifestazioni può essere giustificata dalla continua ricerca di specificazioni e del rigore concettuale. Tale varietà, nondimeno, produce confusione o disordine linguistico intorno al “nome della cosa”, argomento che in questa sede, per semplificare, possiamo considerare come un problema nominalistico[10]. Per dirla in altri termini, la questione del “nome”, in quanto tale non ci deve distrarre dalla “sostanza” del fenomeno, dalla “cosa”: ossia il senso civico, o diversamente detto [11].

 

  1. Senso civico e legalità. Critica del “riduzionismo legalistico”

Più problematica e gravida di conseguenze è invece una seconda questione legata alla nozione di senso civico: la questione del “riduzionismo legalistico”, la quale spesso accompagna il modo in cui il senso civico oggi viene correntemente inteso. Tanto nel discorso pubblico quanto nelle indagini scientifiche, di solito incontriamo questo riduzionismo in riferimento alle manifestazioni empiriche del senso civico: rispettare le leggi e le regole di comportamento sociale e pubblico, pagare le tasse; non calpestare le aiuole nei giardini pubblici; rispettare decoro e pulizia degli spazi pubblici; rispettare la fila in una coda; non gettare rifiuti per strada; rispettare il codice stradale; rispettare gli orari di lavoro; evitare assenze ingiustificate nel lavoro; non appropriarsi di beni privati poco sorvegliati; non tenere alto il volume del televisore, e così di seguito. Così identificato nella sua fenomenologia, il senso civico viene di fatto “ridotto” (anche se per lo più solo implicitamente) a condotte orientate, appunto, al rispetto della legalità o delle regole di comportamento in determinate situazioni o contesti (quando non pura e semplice buona educazione o “buone maniere”). Sia chiaro: legalità e rispetto delle regole sono aspetti inerenti al senso civico. Tuttavia, sostengo che non siano essi, di per sé e in ultima istanza, a costituire la “stoffa” del suo significato, il quale rimanda a una stoffa morale e politico-culturale. Rispettare una legge è un “comportamento osservabile” dal quale possiamo ricavare il fatto che una legge è stata rispettata, ma niente di più. Questa acquisizione, infatti, non ci dice nulla sul “perché” un dato comportamento o atteggiamento è aderisce alla legalità: non ci dice “perché” un cittadino rispetta la legge in generale o una sua una norma specifica. Ma se lo si vuole intendere come carattere che qualifica una cultura e l’ethos politici e democratici, il senso civico rimanda soprattutto alla sfera motivazionale che sta alle spalle di una condotta legale. Il senso civico, per così dire, “è di più” della mera conformità alla legge. Detto con semplicità, il senso civico, non coincide con la legalità. In quanto rimanda a una qualità del buon cittadino che, in un qualche modo, “eccede” il rispetto delle leggi e delle regole, il senso civico concerne anzitutto il “perché” di una condotta che si conforma alla legge, ovvero riguarda le motivazioni sottese ai comportamenti o agli atteggiamenti rispettosi della legalità. Insomma, il senso civico richiama la sfera dei valori, delle credenze o a quell’”assenso interno” di cui parla Weber a proposito della legittimità[12]: ossia quella sfera dove trovano fondamento e fabbricazione il riconoscimento e la giustificazione di un ordine, di un dettato, di un potere, ed è una sfera, questa, che include la stessa credenza sulla legittimità e sul valore della legalità.

Come sappiamo, la conformità alla legalità e il rispetto delle regole (anche quelle relative alla “cosa pubblica”), possono derivare da una pluralità e varietà di motivazioni, considerazioni o “credenze”, alcune delle quali non sono affatto riflesso del senso civico (bensì, ad esempio di opportunismo, utilitarismo, timore, coercizione, conformismo, acquiescenza). In altre parole, il senso civico può stare alla base della legalità e del rispetto delle regole, ma non per definizione o in ogni caso. Da qui la necessità e l’utilità di non cadere nel “riduzionismo legalistico”, nella “trappola della legalità”. Se il senso civico viene appiattito sulla legalità, a restare “occultata” o indeterminata è la base motivazionale o di legittimità[13] che eventualmente qualifica condotte, orientamenti e atteggiamenti propriamente espressivi di senso civico. Il punto qui cruciale è portare in luce quella particolare “credenza” (nel senso weberiano) che giustifica il rispetto delle regole e della legalità [14]. Come nel Settecento ammoniva il poeta Samuel Johnson, un paese che si governa solo con la legge corre gravi rischi, poiché in una società ci sono molte cose per le quali le leggi non hanno risposta. Un ammonimento analogo vale anche per coloro che cercano di comprendere il funzionamento delle democrazie liberali del nostro tempo identificando il senso civico con la legalità o il legalismo.

L’idea, per così dire, di un “senso civico oltre la legalità” come scudo o freno contro la “corruzione” (nel latu sensu classico) non è un’idea originale che riguarda il mondo contemporaneo. Trova significativa ispirazione, ad esempio, nella tradizione storica del repubblicanesimo e in diverse correnti del comunitarismo: per l’epoca moderna risale almeno al realista Machiavelli. Secondo questa tradizione, le leggi sono imprescindibili, ma hanno bisogno di trarre nutrimento da norme di senso civico di natura “comunitaria” (e pre-giuridica rispetto al “formalismo giuridico” caro al giuspositivismo, ma non pre-politica). In una battuta, il senso civico si caratterizza per un rispetto della legalità che è sorretto dalle virtù civiche del buon cittadino. Come ha argomentato il filosofo della politica Pettit, la libertà repubblicana e, più in generale, la qualità democratica (aggiungo io) hanno bisogno non solo della legalità: è necessaria anche quella qualità collettiva che chiamiamo spirito civico[15].

 

  1. Senso civico e disobbedienza. Sulla funzione creativa, critica e oppositiva del senso civico

Sopra ho sottolineato che il rispetto delle leggi, di per sé, non è (necessariamente) indice di senso civico: il rispetto della legalità può, infatti, discendere da motivazioni e considerazioni di altra natura. Ma c’è un secondo buon motivo per evitare di ridurre il senso civico a mera legalità. Un senso civico non ridotto a mero rispetto della legalità, infatti, consente a una cultura politica democratica di dare risalto alla “creatività” o al “senso critico” nei confronti delle leggi vigenti, fino a contemplare e giustificare orientamenti di “opposizione” alle leggi costituite[16]. Questa componente “creativa”, “critica” e “oppositiva” del senso civico viene a perdersi (già a livello teorico o di pensabilità) quando il senso civico è sottoposto a “riduzionismo legalistico”: con questo riduzionismo a essere infatti sottaciuta è proprio l’idea che il senso civico può produrre o favorire innovazioni o cambiamenti delle leggi. Questa funzione trasformativa delle leggi associata al senso civico, ad esempio, si manifesta nel caso di cambiamenti delle leggi e delle norme di legalità che sono la risultante di mutamenti negli atteggiamenti, nei comportamenti o nei valori che si verificano (quando si verificano) all’interno di una società (come è storicamente accaduto nel caso dell’introduzione del diritto di voto per le donne, della legislazione sulla famiglia, delle leggi contro i sistemi schiavistici o le discriminazioni razziste o sessiste, delle leggi moderne sulla libertà di religione o sulla tutela delle minoranze di pensiero di varia natura, delle leggi sulla tutela dell’integrità del corpo di uomini e donne o sul diritto del “consenso informato” in sede di trattamenti sanitari).

Dottrine politiche classiche e moderne, quali ad esempio quelle della “disobbedienza civile”, del “diritto di resistenza” o del “tirannicidio”[17], hanno da tempo chiarito come la legalità di per sé non coincida con la legittimità [18]. Su queste basi, ad esempio, si è nei secoli argomentato a favore della destituzione di chi detiene il potere in un dato momento e che un potere costituito può essere dotato di legalità ma non di legittimità; come pure a sostegno del rifiuto di sottostare alle leggi in vigore in un dato momento. Queste funzioni, a un tempo, di senso critico e di legittimità, di opposizione e resistenza evidenziano ulteriormente il significato della differenza tra una cultura della legalità e una cultura del senso civico. Senza questa distinzione, nella storia non sarebbero (stati) concepibili, forse nemmeno possibili e tanto meno giustificabili cambiamenti di leggi, di norme legali o di regimi e detentori del potere secondo legalità, costituiti e vigenti nelle diverse epoche storiche: pure quelle leggi, quella legalità e quei regimi e detentori del potere che l’odierna cultura politica dominante, sedicente imperniata sui diritti dell’uomo e del cittadino, oggi condanna come barbarie della storia o reputa inaccettabili. Del resto, tra le altre cose, la democrazia si definisce come quel regime politico che riconosce la legittimità dell’opposizione[19] e che fa propria l’espressione del dissenso – sebbene secondo forme istituzionalizzate[20] diventate sempre più “restrittive” nel riconoscere diritto, forme e pratiche del dissenso, tanto da mettere in discussione il dissenso in ragione della difesa dell’ordine democratico costituito. La tendenza all’iper-istituzionalizzazione e all’iper-regolamentazione delle forme e dei motivi del dissenso (per quanto comprensibile) è gravida di conseguenze problematiche, inclusa una deriva del riconoscimento praticato della democrazia liberale come regime aperto alla disobbedienza e alla contestazione antagonistica[21]. La nostra cultura politica dominante appare del tutto schiacciata sulla legittimazione del potere costituito, negando ogni spazio di legittimazione al potere costituente. Ma nella storia non è stato sempre così, altrimenti non saremmo, bene o male, arrivati a quei regimi che oggi tanto celebriamo come democratici e, per dirne una, le masse e le donne non avrebbero nemmeno il diritto di voto.

In questo contesto vale anche la pena ricordare che nemmeno lex e jus coincidono tra loro, né storicamente né concettualmente – sebbene talora possano (in parte) sovrapporsi o essere confusi l’una con l’altro, analogamente con quanto si verifica con legalità e legittimità.

Pertanto, il senso civico ha senz’altro un rapporto stretto con la legalità, ma esso esprime anche un rapporto “critico” (nel senso kantiano) con essa. Ciò deriva dal fatto che il senso civico, in quanto incarnazione di una cultura politica democratica “aperta” rimanda, in ultima istanza, alla sfera dei valori: alla sfera dei convincimenti etico-morali, delle concezioni di giustizia e delle credenze sulla legittimità del potere. È in questa sfera che, alla fine, il senso civico viene a qualificarsi anche in un orizzonte di libertà e di “politeismo dei valori”. E come lotta per la libertà e l’eguaglianza, per l’equità e la dignità. Per una società decente.

Insomma, per poter agire nella e sulla società occorre conoscere la società e la cultura politica che la pervade.

 

  1. Conclusione

Il senso civico, oggi storpiato o malinteso, rappresenta una risorsa critica: una spia che marca una differenza nel funzionamento di un regime politico che ambisce a qualificarsi come auto-governo democratico e libero. Il “buon cittadino” è alla base di questo autogoverno della qualità democratica. Nella misura in cui costituisce il tessuto della salienza democratica di una società, il senso civico ricomprende il rispetto della legalità e l’obbedienza delle leggi costituite, ma non si esaurisce in questo. Il senso civico è più esigente: si ricollega alla dimensione delle norme e delle credenze morali, o delle virtù e dei valori civici.

Questo modo di intendere il senso civico, oltre che per la cittadinanza e per chi ha cariche o funzioni pubbliche, è denso di implicazioni anche per lo scienziato sociale, a partire da chi si occupa di “misurare” attraverso ricerche empiriche il livello di civismo o di cultura civica (civicness) diffuso tra i cittadini di comunità politiche che si proclamano democratiche. Secondo il quadro qui delineato, infatti, l’analisi del senso civico in una società democratica richiede, per un verso, un ampliamento del campo di osservazione dei fenomeni collocati dentro lo spazio “corruzione vs. civismo”; per l’altro verso, un arricchimento e una riqualificazione della “cassetta degli attrezzi” (metodi e tecniche) per la raccolta, la selezione e l’analisi delle informazioni relative ai fenomeni in gioco[22]. Le conoscenze così acquisibili, alla fine, potrebbero indicare la direzione verso cui concentrare l’attenzione politica e dell’opinione pubblica: di fronte alle vicende e agli scandali della corruzione, di fronte ai proclami di lotta contro la corruzione che ciclicamente occupano la scena visibile delle nostre società, di fronte alle azioni di disobbedienza civile e politica (per restare sull’attualità, si pensi ad esempio a vicende quali il green pass, i rave party, la questione migranti). Da qui la necessità di interrogarsi a fondo su quanto la cultura della legalità sia sì necessaria (se non ridotta a ritualistica o ipocrita retorica), ma niente affatto sufficiente per fare i conti con società che vedono eludere, corrodere o corrompere i principi democratici con cui esse dicono di identificarsi.

Quanto qui sostenuto non significa pensare che si possa realizzare una “società dell’integrità etica”. Non è necessario che si lavori con immagini della società o con teorie della politica basate su un integralismo o perfettismo civico-morale. L’uomo, per così dire, non è creatura né angelica né diabolica, ma semplicemente umana: imperfetta e contraddittoria. Alla qualità etico-politica della società contemporanea, nondimeno, gioverebbe una cultura politica capace considerare il “senso civico ben inteso” come una questione concreta se esso innerva la vita sociale, pubblica e politica, e non già come una fatua questione moralistica o peggio “fuori dalla realtà”. Certo, la coscienza etico-morale di governati e governanti è un tema “scandaloso” (nel senso etimologico del termine). Ma, si sa, le cose vitali, che tengono in moto il mondo, sono pietre di inciampo ed è bene che destino scaldalo.

Disse una volta un tale: «Se, un giorno, invito amichevolmente a cena il mio vicino di casa e dopo aver passato una piacevole serata, per puro caso lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo più». La massima è un po’ grezza e limitata a un esempio. Ma non guardiamo il dito che la indica, e proviamo a spostare gli occhi sulla luna. Questa è la sfida. E da qui bisogna ricominciare.

 

  1. Post scriptum

Già… ma il “buon cittadino” è ancora una fattispecie vivente e pensante, che si muove in lungo e in largo nei quartieri delle città e nei borghi? Che rileva i guasti della vita collettiva e che sa dire No? Capace di associarsi e agire collettivamente? Che sa lottare e non solo rappresentarsi e farsi rappresentare? Oppure è diventato l’unica cosa davvero fluida, impalpabile, di una società che tanto fluida poi non è, ma che sa vendere bene le sue rigidità ottimamente dissimulate?

NOTE

[1] Vedi J. Buchanan, Market failure and political failure, in “Cato Journal, 8, 1988. Di Buchanan, “premio Nobel” per l’economia, vedi anche il peraltro pregevole I limiti della libertà, Rusconi, Milano, 1988 (ed. or. 1975). Premio Nobel è qui virgolettato per un preciso motivo legato alla denominazione impropria del premio. Al lettore che ignora la faccenda, lascio il piacere di scoprirlo.

[2] Un caso da manuale, a cui fa tipicamente riferimento la teoria della scelta pubblica, è quello della promessa dell’abbassamento delle tasse, promessa che poi, dopo le elezioni, assai di rado viene mantenuta.

[3] Sul punto è qui sufficiente richiamare gli argomenti antropologico-filosofici di M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Elèuthera, Milano, 2010, e le analisi storico-economiche e sociopolitiche di K. Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957 (a cura di Michele Cangiani), Asterios, Trieste, 2019; Id., Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958, Il Saggiatore, Milano, 2013.

[4] Vedi Ch. Meier, P. Veyne, L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia, il Mulino, Bologna, 1989; G. Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori, Milano, 2005; Q. Skinner, Visions of Politics, vol. II: Renaissance Virtues, Cambridge University Press, Cambridge, 2002; R. Dagger, Civic Virtues, Oxford University Press, Oxford, 1997.

[5] Vedi R. A. Dahl, The problem of Civic Competence, in “Journal of Democracy”, 4, 1992.

[6] L’espressione ricalca Tocqueville, ma ben si accorda anche a un padre dell’economia moderna, Adam Smith, e alla sua Teoria dei sentimenti morali.

[7] Vedi G. Nevola, Giustizia sociale e giovani. L’ideale di un secolo e la sfida del “civismo adattivo”, Edizioni Lavoro, Roma, 2000.

[8] Vedi R. N. Bellah et al., Le abitudini del cuore, Armando, Roma, 1986 (ed. or. 1985).

[9] Vedi G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La cultura della cittadinanza oltre lo Stato assistenziale, Edizioni lavoro, Roma, 1994.

[10] Usiamo il termine nell’accezione popolare, non nel senso della filosofia nominalistica dal Medioevo in poi.

[11] Diciamo questo con la consapevolezza della rilevanza che il linguaggio ha rispetto al modo in cui concepiamo e osserviamo i fenomeni in qualità di scienziati sociali, ovvero con la consapevolezza delle differenti torsioni che un fenomeno può assumere alla luce del suo etichettamento linguistico, e con la consapevolezza del fatto che (talora) differenti linguaggi rimandano a differenti tradizioni teoriche o dottrinarie e finiscono per inscrivere un dato fenomeno in uno o in un altro quadro interpretativo, portandoci così a “vederlo” in un modo piuttosto che in un altro. Fatto questo caveat in favore delle distinzioni terminologiche come requisito importante della conoscenza scientifica, qui mi limito a seguire una posizione “convenzionalista” a proposito dei nomi dati alla cosa, e, convenzionalmente, opto per la nozione ampia di senso civico (diffusa anche nel discorso pubblico) in luogo di nozioni quali, volta in volta, cultura civica, civismo, capitale sociale, ecc.

[12] Vedi M. Weber, Economia e società, Comunità, Milano, 1961 (ed. or. 1922).

[13] Per una articolata teoria delle basi motivazionali e di legittimazione di un ordine democratico vedi J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1976 (ed. or. 1973), il cui titolo, con maggiore aderenza ai contenuti, suona Problemi di legittimazione nel tardo capitalismo).

[14] Vedi le analisi e le ricerche contenute in A. Costabile, P. Fantozzi (a cura di), Legalità in crisi. Rispetto delle regole in politica e in economia, Carocci, Roma, 2012.

[15] Vedi Ph. Pettit, Republicanism: A Theory of Freedom and Government, Oxford University Press, New York, 1997.

[16] Vedi R. A. Dahl, Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Angeli, Milano, 1981 (ed. or. 1971); A. O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano, 1982 (ed. or. 1970); ma anche S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012. La questione era già ben presente agli antichi Greci, come mostra l’Antigone di Sofocle. Nell’età contemporanea si configura nella problematicità del diritto positivo e in una riconsiderazione del significato del diritto naturale in un contesto politico-culturale democratico. Vedi G. Nevola, Ma la democrazia ha bisogno di Dio?, relazione al Convegno “Come se Dio ci fosse”. Teoria politica e magistero ecclesiale in Benedetto XVI, Università di Trento, 23 maggio. 2012. Ora vedi anche Id., Lucidità e tremore in Benedetto XVI, l’Inattuale, in questo sito (3 gennaio 2023).

[17] Tali dottrine sono state a più riprese sviluppate e vivacemente dibattute nell’ambito del pensiero politico, specie a partire dal Medioevo. Qui può bastare rammentare solo qualche esponente significativo di queste dottrine: Etienne de la Boétie o Thoreau; Giovanni da Salisbury, John Milton o Althusius. Queste dottrine (ma soprattutto la prima), riformulate, arrivano alla teoria politica contemporanea. Vedi ad esempio R. Laudani, Disobbedienza, il Mulino, Bologna, 2010. Eco di tali dottrine si trova anche nell’analisi della democrazia: vedi ad esempio H. Zinn, Writings on Disobedience and Democracy, New York, Seven Stories Press, 1997; S.N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia, il Mulino, Bologna, 2002 (ed. or. 1999); A. Ogien, S. Laugier, Pourquoi désobebéier en democratie?, La Découverte, Parigi, 2011.

[18] Sulla distinzione tra legalità e legittimità ha insistito C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna, 1972 (ed. or. 1932).

[19] Vedi R.A. Dahl, Poliarchia, cit.

[20] Vedi R. Dahrendorf, Classe e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Roma-Bari, 1977 (ed. or. 1959).

[21] A questo riguardo vedi, ad esempio, H. Zinn, Writings on Disobedience and Democracy, cit.; S.N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia, cit.; C. Mouffe, On the Political, London, Routledge, 2005; Id., Agonistics. Thinking World Politically, London, Verso, 2013. Il concetto di “società aperta” è, di per sé, in sintonia con la visione di democrazia qui adombrata, sebbene anche esso nella letteratura specialistica e nell’opinione corrente sia stato declinato prevalentemente in modo diverso e più restrittivo, a partire dai suoi alfieri principali: anzitutto Popper e poi Dahrendorf. Vedi G. Nevola, Il ‘fatto’ democratico, cit.

[22] Vedi G. Nevola, G., R.N. Bellah e le “abitudini del cuore”, in “Quaderni di Scienza Politica”, 1, 2012.


 

(Pubblicato su questo sito l’11 gennaio 2023)

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